Note: Ebbene. Questo libro non è un racconto fantastico o una bella fiaba in cui tutti vissero felici e contenti.
È la storia di un uomo, o meglio, la storia di un’anima che ha dovuto patire la sofferenza del cuore, per non soccombere ad essa.
È l’elogio alla forza individuale, all’umiltà che, abbandonatasi alla legge, ha trovato finalmente giustizia.
Da docente ho varcato la soglia della Casa Circondariale “Luigi Bodenza” di Enna nel settembre del 2015, con una immensa tristezza in un incerto incedere, vedendo chiudere alle mie spalle ben sette, dico sette, tra porte di ferro blindate e pesanti cancelli.
Nell’attimo eterno in cui un minuto sembrava non passare mai, quegli occhi, quei sorrisi forzati dei detenuti pentiti, in penitenza costante, si scagliavano prepotentemente squarciando il velo della mia quotidianità e aprendo scenari che mai avrei potuto immaginare.
In un eloquio sempre più profondo e dinamico, la nebbia dei pensieri lasciava spazio ad una, fino ad allora, ignota verità.
Abbracciando nello stesso sguardo quelle coscienze imbrigliate nei reati commessi, provavo ad affrancarle da quelle travagliate esistenze oppresse dai sensi di colpa, accompagnandole, tra una lettura e l’altra, lungo quella stagione così complessa che è la vita.
Ed è stato in quel luogo alienante che ho conosciuto Faisal.
Un giorno la nostra conversazione volse sulla tematica del destino. Erano i giorni prima dell’Appello e le sue parole mi rimbombano tuttora con veemente caparbietà. “Io credo nel destino, -prof. – se un evento deve succedere, accadrà”. E quell’avvenimento, tanto agognato, si verificò il giorno successivo.
Faisal era finalmente libero: assolto per non avere commesso il fatto. L’irrinunciabile idea di libertà si tramutava in disarmante realtà.
Una storia complessa che affonda le sue radici in Ghana, con la pudica innocenza di un popolo che non conosce differenze di religione, il viaggio nel deserto del protagonista, il terrore in Libia, il dramma della traversata alla volta della desiderata Italia alla ricerca di un sogno quasi inafferrabile, l’esperienza della detenzione.
Nel grido disperato di un palese tormento e in un’intima cicatrice del dolore, che come marchio indelebile incide l’esistenza del protagonista, a farla da padrona è un’audace e tacita sopportazione.
Filippa La Porta |