Note: I riverberi di una memoria siciliana
Ho conosciuto Irene Varveri Nicoletti per il tramite dell’amico e prezioso compagno di viaggi teatrali Mario Incudine. Fu Mario a chiedermi di leggere i racconti di Irene e io mi accinsi a farlo perché me lo aveva chiesto lui, ma sin dalla lettura del primo racconto sono stato preso dal farsi della scrittura, dall’incedere dell’impulso narrativo e dalla pregnanza descrittiva dei personaggi.
Non sono un critico letterario né uno specialista di tale ambito, tuttavia da lettore assiduo e appassionato mi pare di sentire in Irene Varveri Nicoletti l’afflato di una narratrice di vaglia. La galleria dei personaggi e delle storie di cui ci vuol fare conoscere tranche de vie, caratteri e destini, sono tratteggiate con maestria, con una grazia mai compiaciuta e un’ironia tutta siciliana che incanta.
Le figure femminili, in particolare, sono presentate con una partecipazione simpatetica nei confronti dei loro sentimenti, delle loro vite. Le ferite, gli sfregi inferti alla loro dignità da convenzioni retrive di una società bigotta, maschilista e classista diventano, nell’ammaestramento che ciascuno di questi racconti porta in sé, un titolo di merito di quel plus esistenziale che appartiene all’essere donna in quanto tale e che ancora stentiamo a riconoscere.
Tale è la risonanza con le donne dei suoi incontri reali e della memoria da arrivare a celebrare in una sua ava, la scandalosa Arcangela, l’impudicizia come atto di libertà, la libertà di non portare le mutande per fare pipì nel tempo e nel luogo in cui le capitava di trovarsi. Ma la consonanza con l’anima e l’intimità segreta o svelata dei personaggi femminili non impedisce a Irene Varveri Nicoletti di cesellare superbe figure maschili, fra cui mi pare troneggiare il cugino Zorro, un certo Alvaro, un forestiero ciociaro, che reduce della Seconda Guerra cerca sistemazione in un piccolo paese della provincia siciliana. Il soprannome di cugino Zorro glielo hanno affibbiato i suoi compaesani elettivi per via di un buffo copricapo che lo apparenta all’eroe. L’esperienza trascorsa combattendo, invece gli ha lasciato una scheggia di bomba in testa. Bello, prestante, sciupa femmine e cantante dalla bella voce, il cugino Zorro si rivelerà un bellimbusto fannullone opportunista e ladro. Nonché, per via della scheggia nel capo e di un lato oscuro della personalità, un sadico che sfoga la sua furia contro animali indifesi. Questo personaggio, in qualche misura, evoca alla mia memoria il personaggio del donnaiolo farabutto interpretato da Vittorio Gassman, in Riso Amaro. La Varveri Nicoletti congeda questo personaggio seducente ma sinistro mostrandocelo nell’epilogo ridicolo della sua ribalderia. Un asino (lo scecco) si ribella tempestivamente alla sua follia feroce, lo costringe, caricandolo, a rifugiarsi in una rimessa e a chiamare aiuto inascoltato e ridicolo. Il cugino Zorro, ridicolizzato, lascerà il paese con meta Roma e, con un ultimo furto, il cuore e il corpo della giovanissima figlia dell’uomo che, con fiducia, gli aveva dato un lavoro. Irene lascia noi con una riflessione che sgorga dalla sua pietas ironica: il tragico spesso porta con sé segni buffi e goffi, un improbabile cappello alla Zorro e un somaro che sottomette un bullo.
Questa scrittrice esordiente mi ha appassionato e il suo rapporto con la memoria mi ha incantato. Una memoria diretta o raccolta che si riverbera in una necessità di tramandare il senso di esistenze sottratte alla pletora dell’indifferenza e di farlo con grazia, nitore, pietas e ironia complici della umana fragilità.
Moni Ovadia |