Note: Prefazione
E’stata per me una piacevole sorpresa e un grande onore ricevere l’invito a curare la prefazione di questo nuovo libro di Giusy Panassidi. Proverò a descrivere le impressioni che ne ho tratto leggendolo. Nel libro l’Autrice dà prova di buona scrittura, le pagine scorrono piacevolmente riportandoci ad atmosfere e ambientazioni tipicamente siciliane. Se dovessi fare un paragone gastronomico - la gastronomia va oggi così di moda - nel descrivere questo libro, direi che profuma di buono, come certo pane siciliano appena sfornato, di quel profumo e di quel sapore che hanno certe storie semplici, capaci di resistere all’ingiuria del tempo, popolate da personaggi ai quali si finisce per affezionarsi un po’. La scrittura della Panassidi sa riportare alla luce, attraverso una grande grazia affabulatoria, un microcosmo fatto di donne, ognuna con la propria vicenda vissuta in un immaginario paese siciliano, persone le cui storie attraversano tutto il Novecento. Ma emerge, sullo sfondo, anche un altro elemento, quello legato ai luoghi, quelli in cui si nasce e che accompagnano i nostri primi anni di vita, quelli che ci insegnano a riconoscere i volti delle persone care. I luoghi diventano possenti evocatori di memorie e quando capita che da essi ci allontaniamo, per circostanze della vita o per scelta, ecco che ci diventano ancor più cari: si animano di volti, ci ricordano conversazioni del passato, grida di bambini che giocano spensierati, atmosfere di serenità familiare, che ci inducono quasi a lasciarci andare sull’onda di quel “dolce rimembrar” di cui parla Leopardi nelle sue Ricordanze. I luoghi e le cose vissute nella fanciullezza si riflettono come in uno specchio della nostra mente e si proiettano prepotentemente nelle nostre vite. E’ questo il caso di Luisa, la protagonista, e del suo ritorno in Sicilia per la morte dell’amata nonna. Ma il cuore narrativo del racconto è, a mio avviso, la garbata denunzia di quell’offesa che per secoli, ed in parte ancora oggi, è costituita dalla erronea convinzione maschilista che le donne siano l’anello debole della società, questione che l’autrice ampiamente affronta nel presentarci le figure femminili di queste pagine. Il maschilismo di cui stiamo qui parlando non è, però, un “prodotto” inventato dagli uomini del secolo appena trascorso o di quello precedente. Si tratta di un retaggio antichissimo che affonda, tra l’altro, le sue radici in una particolare interpretazione della Sacra scrittura dalla quale si è fatta scaturire la convinzione dell’inferiorità della donna. Questo pregiudizio, presente anche presso altre civiltà come quella greca e quella romana, è durato per secoli ed ha fatto sì che la donna fosse relegata ad un ruolo marginale e non ottenesse il riconoscimento nemmeno dei diritti più elementari. Questa situazione ha caratterizzato sino a non molto tempo fa anche il nostro Meridione, dove in molte famiglie povere la nascita di una femmina - lo accenna anche l’Autrice in queste pagine - era addirittura considerata una vera e propria disgrazia, un castigo, un affanno da sopportare, una bocca da sfamare e di cui liberarsi prima possibile non appena fosse in età da marito (un proverbio siciliano recitava: Fimmina a diciott’anni o la mariti o la scanni). La nascita di una bambina costituiva quasi sempre un fatto indesiderato. Non infrequente erano i casi in cui la neonata veniva “soppressa” ricorrendo a qualche antico e crudele metodo. Uno di questi era il cosiddetto “panno freddo”. Si avvolgeva il corpicino in un panno bagnato con acqua fredda e si aspettava che arrivasse la morte. Un altro metodo consisteva nel lasciare alla neonata il cordone ombelicale aperto provocando anche in questo caso un sicuro decesso, questa volta per dissanguamento. Le bambine indesiderate che avevano, per così dire, più fortuna venivano lasciate nottetempo davanti alle “ruote dei projetti” nelle chiese o nei conventi: erano le “trovatelle”, destinate a diventare il più delle volte suore. In questo quadro, dove le donne sono state considerate per secoli antropologicamente inferiori agli uomini, figurarsi se esse potevano avere voce in capitolo in materia amorosa! Il matrimonio, salvo rare eccezioni, in tutte le classi sociali c’entrava ben poco con l’amore. L’unione tra due giovani non era che l’impegno tra famiglie, dettato da considerazioni di tipo economico, di dote, non certo di sentimenti. Ancora negli anni Cinquanta del Novecento nel Meridione molti matrimoni venivano combinati dai padri senza neanche consultare gli interessati, con veri e propri contratti verbali stipulati in piazza o nei luoghi di lavoro, magari in campagna o in miniera. Da tutto questo loro passato le donne con forza e coraggio si sono dovute riscattare. Tutto questo racconta Giusy Panassidi in un libro tutto al femminile, le cui pagine ci fanno attraversare le vicende di ben quattro generazioni di donne, che abbracciano tutto il Novecento, consegnandoci anche uno spaccato sociale della Sicilia, di cui l’autrice è originaria. Giusy riesce a trattare la sua materia con delicatezza, senza astio, mai sopra le righe, raccontandoci di come le donne, con i loro pazienti silenzi e la loro tenacia hanno, con le unghie e con i denti, saputo raggiungere risultati insperati. E non è stato facile in una terra come la Sicilia. A conclusione di queste mie brevi riflessioni voglio accennare ad un ulteriore aspetto che ho colto dalla lettura di queste pagine, ovvero le immagini e le atmosfere che traspaiono dalle descrizioni dei paesi siciliani. Questo è, a mio avviso, un elemento non secondario del libro, perché richiama in qualche modo alla memoria, elemento fondamentale per ogni siciliano. Gli acutissimi greci, nostri padri, non credevano forse che la madre di tutte le Muse fosse proprio Mnemosine, ovvero “Memoria”? La memoria per noi siciliani è stato sempre un chiodo fisso da Verga a Pirandello, da Sciascia a Consolo, Bufalino ecc. Il continuo ritorno al memorabile, al poetico, è un nostro cruccio esistenziale. In merito Leonardo Sciascia diceva che in questo la nostra sicilianità non è stata modificata neanche dalle tante conquiste che si sono succedute nei secoli nella nostra isola. La consapevolezza che la memoria sia una necessità dell’uomo è un punto così fermo della letteratura e della società siciliana da non essere stata mai scalfita neppure dai tanti eventi storici. Si può restare o partire dalla Sicilia, ma resta sempre un legame fortissimo con la terra, fatto di ricordi, di sonorità, di echi dell’anima che, pur annidandosi a volte in profondità, non possono mai definitivamente cancellarsi. Ciò vale anche per quelli che siamo rimasti e che, nonostante qualche speranza delusa in una Sicilia che il più delle volte è rimasta refrattaria al cambiamento, torniamo spesso ad abbeverarci alla fonte dei ricordi, all’infanzia, al passato. In questo la Sicilia potrebbe essere paragonata ad un grande fuoco, col quale se sei lontano riesci a riscaldarti, se sei vicino rischi a volte di bruciarti.
A conclusione di queste brevi note, un ringraziamento all’Autrice che ci ha donato questo bel racconto e che, siamo certi, continuerà a regalarci altre belle pagine.
Filippo Falcone Scrittore |