Note:
I guerrieri di Riace
di Mario Grasso
Editore: Lunarionuovo
Anno: 1982 | numero di pagine: 212 | formato: tascabile
Lingua: italiano
Descrizione del libro Gennaio
1982. viene pubblicato come Quaderno di Lunarionuovo un poema di
cinquemila versi in 22 canti intitolato “I Guerrieri di Riace” (pagg.
212). Il poeta immagina di interrogare i famosi Bronzi ellenici scoperti
nel mare di Riace. E questi narrano tutta la loro storia (Una
fantastica invenzione totale) dalla fusione del bronzo alle
peregrinazioni per mare allorché trafugati da pirati che cercano di
venderli finiscono con l’essere sbalzati dalla Grecia alla Sicilia e da
qui fino all’Egitto prima di finire in fondo al mare. Nel canto V a pag.
33 della prima edizione, troviamo una preghiera in siciliano che il
poeta fa pronunciare alla donna del Tiranno mentre da alle fiamme lo
scheletro di una vittima del marito: “Non fari scattiòli / suffumica
cuntentu / sbrisciu e stinghiusu schelitru / t’arricogghi / lu
spiritu ti vugghi / scinni cchiù ô funnu / acchiana acchiana sbampa
/ azzicca ‘n celu / a rrampa / e dda ti stampa / la to’
spogghia unn’è / ossa abbrusciati vénili a pigghiari”.
Da
Il Mattino (Napoli), 27 febbraio 1982: “(…) I Guerrieri di Riace,
un’opera extra-ordinaria nel panorama della poesia italiana che sembra
essere condannata da tanto alla vibrazione, alla folgorazione, alla
poetica del frammento o della frantumazione, condanna alla quale quasi
nessuno sfugge. Qui invece Mario Grasso ha ambito al poema. La vera
qualità della poesia è data infatti dalla lotta della memoria contro
l’oblio. In questa lotta Mario Grasso, poeta siciliano, risulta
vincente. Conoscitore nel profondo degli scrittori e dei lirici greci si
è fatto divorare dalle loro favole, dai loro miti, dai loro miracoli,
dalle loro mille e una odissea (…) La potenza viva del poema di Mario
Grasso è il suo rinnovato umanesimo. Un poema, allora, contro corrente,
nel senso che conduce a una strenua lotta contro l’annullamento della
grande arte, del grande realismo e contro la principale decadenza della
nostra società storica, a ridurre l’espressività della poesia a mera
afasia. Lungi dalle superstizioni dell’afasia, nel poema di Mario Grasso
appare invece l’idea-forza espressa dalle parole, l’importanza del
soprastrato, ricco di termini arcaici e nuovi, luminosi, mai inquinati
da deformazioni folcloriche o da false etnie, arte, quindi, sommamente
aristocratica (…)”. Luigi Compagnone
Da Il Piccolo
(Trieste), 5 maggio 1982: “(…) Del poema epico, infatti, qui c’è
anzitutto la dimensione del viaggio, quell’indifferenza alla geografia
accanto alla familiarità per ogni geografia, quell’essere sempre
consentanei al paesaggio, consumato che sia in un lunghissimo giro
d’anni o appena intravvisto. Con altre connotazioni dell’epica: le
tempeste, i mostri più o meno antropomorfici, le profezie, le visioni
del futuro, le favole intrammezzate (si veda in questo I Guerrieri di
Riace, la favola di Ilena), soprattutto l’accettazione che abbassa il
meraviglioso a normale e innalza la norma a straordinarietà. Non meno
fitti, e ovviamente appena elencabili, i problemi stilistici. Intanto si
può dire che la figura sintattica dominante è l’endiade, l’esprimersi
mediante due termini coordinati. E come l’altra ricorrente figura
dell’iperbato, cioè dell’inversione rispetto alla norma sintattica, è da
Grasso strumento manovrato con consapevole sagacia, al punto giusto,
per giuste sollecitazioni. Ma lo sforzo stilistico maggiore ci sembra
operato in sede lessicale. Certo alle spalle Grasso ha i suoi
precedenti: il D’Arrigo di Horcynus Orca, direi per fare almeno un nome
(,,,)”. Elio Bartolini
Da La Gazzetta del Mezzogiorno (Bari), 23
aprile 1982: “(…) Grasso, insomma, riattraversa i principali miti
archetipi dell’umanità e le tappe fondamentali delle letterature che li
hanno rivissuti. Ma affronta l’operazione in maniera in qualche modo
smagata, da contemporaneo: l’approccio è anche quello di favola. Il
poeta tesse il suo racconto come un incanto e insieme ogni tanto è
complice col lettore nel lacerarlo. È l’unica via per affrontare una
storia che assomma ne I Guerrieri di Riace, in sé tutte le altre storie,
la storia del fruire stesso della vita: “Cosa diceva il mare in tanti
secoli? / Certo più che la reggia di Santarro. / Il terremoto, il
tempo della peste / lì ci smangiava il vento / qui ci rodeva il
sale.” (…)”. Franca Rossi
Da Letture critiche di AA. VV.
su I Guerrieri di Riace di Mario Grasso, a cura di L. Trenta Musso,ed.
Sciascia, CL 1984: “(…) Parlerei di funzione orotopedica del Potere,
intendendo con essa l’alleanza tra Dominio e Sapere, a cominciare da
Platone dove si esplicita la figura del filosofo-re. Non c’è dubbio
comunque che la metafisica del Politico implichi un contegno
farmaceutico finalizzato a produrre una sicurezza inconcussa
(Heidegger), per cui non c’è il Potere senza una promessa di guarigione,
senza il miraggio del Sommo Bene. Vorrei aggiungere che ogni forma di
Dominio è sempre implicitamente totalitaria, in quanto Ratio che
pretende di ricomporre il conflitto, il tragico che è nel reale.
Di
questa presenza leviatanica ci dà testimonianza l’opera di Mario
Grasso, soprattutto nel capitolo XII: il Faraone che si mostra come puro
sguardo, come panopitkon. Solo che ovunque regna la follia del giorno,
direbbe Blachot, di ogni discorso dominante, intesa a esorcizzare quello
che Foucault definisce “ogni frammento di notte”, il Sacerdote-sapiente
che traccia geroglifici (simboli, valori) e costruisce false certezze,
fino al riferimento alla techne, forma specifica della Ratio
occidentale: “anzi stavolta i soliti artigiani / giunsero edotti / a
incidere sui tenoni / i nuovi nostri nomi”. In pochi efficacissimi
tratti Grasso sintetizza l’immagine del Leviatano, della Kultur e del
Dominio; di contro si erge l’Altro, la differenza, questi Guerrieri
senza patria, stranieri cone il sofista, come il meteco. Testimoni di
verità, mettono in crisi l’opacità granitica della storia dove il
Discorso si fa Dominio. Il falso e fraudolento Sapere li rifiuta: “ci
respinse il sapiente”, perché il loro è un sapere senza potenza, debole e
tragico; la loro sapienza non fonda sistemi e rende impercorribile
l’utopia del Bene. Essi vedono quanto è interdetto vedere: “obiettivi
invisibili, lontani”, “castelli di luce”, le Martuffe. Come i poeti,
dunque, vedono l’invisibile (la poesia, ha scritto Viviani, è la vista
dell’invisibile), come i profeti urlano la verità del disastro.
L’immagine
finale del Canto: “d’un corteo di Martuffe impennacchiate”, dove si
esplicita il riferimento alla furia nazista, è ancora più significativa
se la si pensa determinata da un eccesso della visione, da uno sguardo
rovesciato sul raccapriccio. Perché questo vedere nella notte del mondo,
questo vedere la notte incessante nel lucore di un abbaglio, è una
delle funzioni del poetico. Proprio perché “tra le chiurme / nessuno
vide / nessuno udì”, la poesia è testimonianza, linguaggio
dell’esigenza ed esigenza del dire, nonostante le croci uncinate,
nonostante l’orrore che anzi solo il poetico svela.” Roberto Carifi
Da
Letture critiche di AA. VV. su I Guerrieri di Riace di Mario Grasso, a
cura di L. Trenta Musso, ed. Sciascia, CL 1984: “(…) Ma se classicamente
tragica è la sorte della fanciulla di questo Canto XIV, tragicamente
moderna è la condizione vissuta dai Bronzi. Essi vivono il dramma del
non capire, prima, del non giustificare, poi, e infine dell’impotenza
cui li condanna la loro essenza di staute, di cose (così la fine del
Canto XIII), di Numi solo per artistica finzione, non per onnipotenza
attiva.
Si segua, ad esempio, l’incertezza delle ipotesi,
l’ansioso sforzo di capire, ripetuto con un insinuante crescendo:
“niente ecatombi, / forse perché poveri / o perché altro l’uso”, vv.
8-10; “… nei dieci anni, / poco più, forse tredici…”, vv. 53-54; “Il
mio sospetto formulò una tesi”, v. 67; “non seppi mai quale fu il nome
suo”, v. 77. Quando capiscono, i Bronzi lamentano la loro impotenza,
vorrebbero rifiutare il sacrificio umano loro tributato, patiscono e
vanamente protestano la loro condizione di Numi: “come altro che imposto
(il sacrificio) / noi potendo l’avremmo dato un segno / per
rifiutare vittime e preghiere”.
Sospeso tra due mondi, quello
cruento del sacrificio antico incarnato dalla sventurata e purissima
fanciulla, e quello eticamente moderno e razionale dei Bronzi a cui
esecrando pare il sacrificio, il dettato oscilla tra due estremi
stilistici: uno, delirante e caotico, si affida soprattutto
all’anacoluto sintattico, all’omissione di legami verbali, al repentino
mutare dei soggetti, all’irruzione del metro ineguale; l’altro inclina
alla limpida scansione del fraseggio, nobilitato da cauti iperbati,
mirante all’armonica distensione del dominante endecasillabo e del
subalterno settenario, normalmente sciolti da rima secondo la poetica
dello stile alto di ispirazione neoclassica, col raro contrappunto di
qualche rima interna o di un’assonanza in posizione esposta.” Pietro
Gibellini
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