Un vecchio pallone di cuoio rattoppato, trovato per caso in un campetto parrocchiale: oggi un “oggetto” insignificante, ma per noi, figli di quella generazione nata negli anni ottanta, aveva un significato indescrivibile. Ore, giornate, anni passati a dare calci a quel pallone “fantasticando con la mente immaginandomi chissà quale partita e chissà in quale stadio”. Poi ti accorgi che il tempo scorre veloce, diventi adulto, ma il tuo “migliore amico di giochi” è sempre lì a fianco a te, insegnandoti le cose fondamentali e l’essenza della vita stessa: il sacrificio, la disciplina, il rispetto, il dolore (anche fisico), la gioia, il divertimento, la fortuna, la sfortuna. Ad appena 17 anni, non ancora compiuti, ebbi la fortuna di giocare titolare, fin da subito, in una squadra di una buona categoria a livello dilettantistico regionale. Poi il bivio: il calcio o la scuola? Il calcio o il lavoro? Scelsi la scuola ed il lavoro, ma il mio migliore amico di giochi mi ha fatto sentire “calciatore vero” e mi ha sempre accompagnato come “una lieve brezza, che mi dava sollievo e divertimento, durante le esperienze “vere” della vita”.
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