Note: Nel presentare il suo libro di fotografie, Enrico La Bianca cita una disputa tra Leonardo Sciascia e la Chiesa cattolica, ponendosi, o riproponendo, la domanda sulla natura autentica delle sacre rappresentazioni e delle feste religiose in Sicilia. Esprimono esse il reale coinvolgimento nella fede cristiana, la partecipazione collettiva al mistero e alla morte del figlio di Dio, o sono piuttosto reviviscenze degli antichi atteggiamenti pagani? Il che equivale a dire: sono da ascriversi esclusivamente alle tante manifestazioni del folclore e delle tradizioni popolari, o hanno a che vedere col trascendente? Esprimono un afflato religioso o sono semplicemente la messa in scena di un dramma tutto umano – morte, malattie, indigenze, persecuzione, assassinii, tradimenti, oppressioni – trasfigurato nel linguaggio del mito di cui la religione farebbe parte?
Enrico dichiara di non avere una risposta al riguardo. Nemmeno le immagini sembrano chiarire la questione. Se la folla degli astanti sia un popolo di fedeli o di pagani, non è dato sapere. Esse dicono solo di come lui, Enrico, interpreti e viva l’evento. Il suo punto di vista c’è, presente sin dalla prima immagine, chiaro ed evidente a chi sfoglia la silloge. La sua opera fotografica sul Venerdì Santo ennese non ha alcun carattere documentaristico. L’autore non è mosso dall’intento di realizzare un servizio che descriva la specificità di una tradizione o aspetti particolari del folclore – nulla di più estraneo al suo occhio pur rivolto ad una materia che ha che fare con la cultura di un popolo.
Il materiale d’interesse specificamente storico e culturale viene pertanto scartato o trascurato. Svanisce così la diversità delle confraternite, con le loro gerarchie sacre e profane, che pur rappresentano la sostanza storica e culturale della processione degli incappucciati. Vuoi perché il bianco e nero, annullando i colori delle mantelle dei confrati, con l’effetto monocromo che produce, livella le appartenenze e suggerisce un corteo indistinto di uomini. Vuoi perché l’effetto mosso, cui fa spesso ricorso l’autore, rende evanescenti i corpi, li smaterializza e li assimila, nel gioco della luce, alla pura energia delle anime. La riduzione del contrasto (foto 2 ), poi, ne accelera la trasfigurazione. I confrati, in quanto tali, non sono più percepibili, confusi e immersi in uno stato assimilabile all’unione mistica. E anche quando la loro l’immagine si fa reale, appaiono a volte come sospesi, in levitazione, o perché i riflessi trasformano il porfido in cristallo (foto 4), o perché viene sottratto loro il piano d’appoggio (foto 29). Ma il fenomeno non riguarda solo i confrati. Così l’ordito geometrico e materico della pavimentazione fa da contrappunto al cammino delle donne in bianco e nero (foto 23). Il loro passo non poggia sul basalto, ma sulle ombre che rendono soffice e aereo il movimento.
Il racconto fotografico, dunque, sin dalle prime battute, sradica l’evento religioso da un dove e da un quando, storicamente dati, e lo solleva sul piano irreale e metafisico di un tempo senza tempo e di uno spazio inesteso. Laddove presenti, gli elementi architettonico-paesaggistici e gli astanti assumono di volta in volta significati diversi, pur sempre in coerenza con il mistero che l’occhio cerca e trova nell’evento religioso. Palazzi, antichi e recenti, scorci di città, ruderi e vie di Enna ora sono piani e volumi nella costruzione di prospettive onde fare defluire luce e movimento; ora solo quinte che fanno da sfondo a un dramma universale; ora evocano il cammino umano, tra pezzi di mondo e memorie che affondano in vite precedenti. Mai l’obiettivo si posa sul manufatto per coglierne il valore artistico e monumentale. Protagonista resta il Venerdì Santo, la Passione di Cristo che, però, risulta assente nella silloge. Strano… proprio Lui! Sarà pure un caso, ma l’assenza del fercolo del Cristo – unica figura orizzontale della rappresentazione sacra – si allinea perfettamente, come la superficie concava a quella convessa, al movimento ascensionale della processione. E’ dunque un album onirico, quello di Enrico, non un reportage. Che cattura ciò che la rigida realtà dei corpi nasconde. Visioni o sogni, le sue immagini sono gradi di un’ascesa. Tutto viene trasferito altrove. E così Enna finisce col prestare le sue architetture alla Città Celeste.
La folla degli spettatori non è sempre presente. L’attenzione è rivolta agli attori. Il dramma e il mistero non vengono mai colti, come in uno specchio, nel volto degli astanti e dei devoti. La scelta poetica rivela l’approccio interpretativo dell’autore: la morte di Cristo è un dramma divino non circoscrivibile nella sfera delle umani passioni. E così (foto 14), quasi un’iperbole, il sacro della rappresentazione si riflette in un manichino. Il riflesso del sacro, quasi un’allegoria, rende vivo il manichino. Lo rende umano. E’ il divino che dà un significato all’uomo e non l’uomo al divino. E’ solo nella dimensione del sacro che l’uomo diventa umano. Gli spettatori pertanto, ripresi in piccoli gruppi, ai bordi della strada lungo il percorso della processione, assiepati sul sagrato del duomo, fanno da semplice sfondo o inevitabile contorno. Eppure il soggetto di alcune foto sono proprio loro, gli astanti. Non è una deroga alla chiave interpretativa di fondo, tanto meno un’incoerenza. Ciascuna di esse è un aforisma sulla condizione umana. Uno scatto sembra dire: siamo di passaggio… con direzione obbligata (foto 13). Un altro ci appare come l’istantanea di una classe di trapassati, quasi una citazione da L’attimo fuggente, a ricordarci che tutto finisce… e, nello stesso tempo, che tutto permane, generazione dopo generazione, come queste figure di eterni spettatori del Venerdì Santo (foto 30).
Il mistero che vive e palpita nelle fotografie di Enrico, non è dunque pensato quale limite inattivo della vita e della conoscenza. Non è ricacciato nell’ignoto, in un mondo sconosciuto, lontano e diverso dal mondo governato dal tempo, dallo spazio e dalla causalità. Esso è altrettanto reale, e forse più, del tempo, dello spazio e di tutte le altre cose che chiamiamo realtà. E’ la radice che alimenta ogni essere, l’origine e lo sfondo da cui le cose emergono e in cui si dissolvono. Il mistero della realtà si converte così nella realtà del mistero. Nell’avere consegnato questa verità attraverso la sapienza dell’occhio, piuttosto che le parole del filosofo, sta la grandezza e il talento artistico di Enrico La Bianca.
Salvatore Chiello |